La lettura della congiuntura internazionale prende le mosse da tre dati di fatto. i) Il prezzo del petrolio ha raggiunto nuovi massimi storici. La qualità WTI, quella scambiata sulla piazza di Chigago, ha sfondato la fatidica quota dei 100 dollari/barile, livello fino a qualche tempo fa impensabile e ipotizzato solo per simulare scenari economici catastrofici (che peraltro non si sono per ora mostrati affatto veritieri). Dietro la recente impennata, al solito, risiedono molteplici cause, dalle basse scorte dichiarate dagli americani, alle irrisolte tensioni medio orientali, alle pressioni speculative. ii) Il cambio euro/dollaro rimane incollato ai massimi storici, appena sotto quota 1,50, e non possono essere esclusi nuovi rialzi. Il dato è d’altronde coerente, da un lato, con l’assottigliamento -che presto potrebbe trasformarsi in un’inversione di segno- del differenziale rendimenti americani ed europei (la Federal Reserve, negli ultimi, sei mesi ha ridotto il tasso di interesse ufficiale di un punto percentuale mentre la Bce lo ha lasciato fermo), dall’altro, con il timore che il “bubbone” immobiliare americano non abbia esaurito i suoi nefandi effetti nel comparto reale (gli investimenti residenziali sono crollati del 20 per cento nel terzo trimestre dell’anno) nè tanto meno in quello finanziario. iii) Il terzo dato è che le tensioni sui mercati internazionali, in particolare quelli monetari, non sono affatto rientrate. Sino alla fine dell’anno scorso, la situazione in Europa e negli Stati Uniti non è stata poi molto diversa da quella registrata subito dopo la crisi dei mesi estivi: lo spread tra tassi interbancari (a 1 e 3 mesi) e tassi ufficiali è rimasto insolitamente ampio, preoccupante testimonianza di una”crisi di fiducia” persistente e diffusa (solo negli ultime settimane c’è stato un parziale rientro).