Nell’ultimo biennio, le esportazioni italiane sono diminuite del 7,3 per cento, sottraendo oltre due punti alla crescita del prodotto. Nello stesso periodo, l’export dei paesi dell’area euro è aumentato in media del 1,5 per cento, con punte del 6,4 e del 5,4 per cento in Finlandia e Portogallo; in Germania è stato registrato un incremento del 4,6 per cento. Ce n’è abbastanza per essere quantomeno preoccupati. Ci sorpassano la nuova Europa e la «vecchia», a ovest del Manzanarre e anche più a nord del Reno. Non è ovviamente colpa dell’euro, che ha soltanto acceso le luci sulle nostre debolezze, precludendo la strada delle svalutazioni competitive. Piuttosto, sul banco degli accusati rischia di tornare il nostro modello di specializzazione e, di conseguenza, quella politica industriale che avrebbe dovuto favorirne l’evoluzione. Si tratta, in realtà, di una vecchia storia. Vi è chi ritiene che del nostro modello c’è da essere soddisfatti, o perché non si può fare nulla per cambiarlo, o perché non si è legittimati a imprimere una direzione al cambiamento, o perché il modello evolverà spontaneamente. Vi è chi ritiene, invece, che qualche reazione, del tutto legittima, si può organizzare, non necessariamente mirata a trasformare il modello ma certamente orientata a renderlo più solido, meno rischioso e più aperto a nuove soluzioni.