Trentaquattro milioni di disoccupati nei paesi industrializzati, un tasso di disoccupazione sopra il dieci per cento in undici dei ventiquattro paesi Ocse e una quota dei disoccupati di lungo periodo vicina alla metà di tutti i disoccupati nei paesi della Comunità europea hanno riproposto la questione del lavoro al centro dell’attenzione. L’hanno riproposta dopo quasi venti anni di oblio, durante i quali pareva che l’unico problema rilevante fosse l’inflazione e che l’azione migliore di fronte alla disoccupa zone consistesse nell’agire il meno possibile. Chi predicava che la disoccupazione si sarebbe spontaneamente riassorbita con la discesa dell’inflazione e con il ritorno alla “normalità” della crescita economica, dopo i due shocks petroliferi, è stato puntualmente smentito. La ripresa congiunturale della seconda metà degli anni Ottanta (la più lunga del dopoguerra) non ha alleviato di molto la disoccupazione di massa (specie in Europa), nonostante il calo dell’inflazione. La crisi dei primi anni Novanta è quindi partita da uno zoccolo di disoccupazione ben più alto che nei primi anni Ottanta.
Non sappiamo se gli oltre tre milioni di disoccupati italiani e i trentaquattro milioni dell’Ocse definiscano un tasso dì disoccupazione «naturale», ma certo le dimensioni del fenomeno sono ormai tali da far ritenere desiderabile qualche tentativo di forzare la (matura)). Le priorità devono essere rovesciate: dalla riduzione dell’inflazione alla riduzione della disoccupazione (tenendo sotto controllo l’inflazione).