Nei mesi che hanno seguito l’abbandono da parte della lira degli accordi di cambio dello Sme si è aperto in Italia un contenzioso circa il livello dei nostri tassi d’interesse. Sono tre i soggetti di questo contenzioso: il sistema delle imprese, che trova voce in decise prese di posizione della Confindustria, massima associazione della categoria; le autorità monetarie; il sistema delle banche. I termini del dibattito sono noti, ma giova ricordarli.
Le imprese ritengono necessaria e possibile una drastica riduzione dei tassi, da promuoversi sia con ribassi decisi, e non graduali, dei tassi di riferimento, sia grazie ad un mutamento di comportamento delle banche, alle quali si imputa una rigidità verso il basso dei tassi attivi, che gonfia lo spread fra questi e i tassi passivi. La necessità di una riduzione dei tassi è argomentata con riferimento ai danni che le imprese subiscono da un alto livello del costo del denaro, sia direttamente, sia indirettamente, per le conseguenze provocate da un costo elevato del debito pubblico. Per quanto riguarda gli effetti diretti, si considera il nesso fra tassi d’interesse, da un lato, e investimenti e occupazione dall’altro. Non sempre è chiaro se si abbia in mente un danno emergente o un lucro cessante: se cioè si tratti di evita re la chiusura di imprese, schiacciate dal peso degli oneri finanziari, anche a moti vo di una situazione debitoria fortemente peggiorata negli ultimi armi; o se si tratti di rimuovere un ostacolo a investimenti nuovi. Circa le conseguenze indirette, si ragiona che una riduzione del costo del debito consentirebbe di alleviare il peso degli interventi discrezionali sulle entrate e sulle spèse necessari per conseguire l’obiettivo della stabilizzazione del rapporto fra debito e prodotto: sarebbe pertanto un’alternativa virtuosa sia ad ulteriori gravami fiscali, che colpirebbero anche le imprese, sia ad un’ulteriore compressione del reddito disponibile, e dunque della domanda.